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Un popolo oppresso dalle tasse? Non esattamente…
Il 43,15% degli italiani non ha redditi e vive “a carico” di qualcuno

1 Ottobre 2025
CIDA - itinerari previdenziali - il difficile finanziamento del welfare italiano

Non siamo un Paese “strozzato” dalle tasse, ma un Paese in cui il peso del fisco è concentrato su una minoranza di contribuenti. È la fotografia che emerge dalla dodicesima edizione dell’Osservatorio sulle entrate fiscali, a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, presentata questo pomeriggio alla Camera dei Deputati insieme a CIDA – Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità, sostenitrice della ricerca, in occasione del convegno “Il difficile finanziamento del welfare italiano”.

«Si dice spesso che l’Italia sia un Paese oppresso dalle tasse. Ma è davvero così? I numeri dicono di no. Il problema non è che tutti paghino troppo, ma che pochi paghino per tutti. Quasi un cittadino su due non versa nemmeno un euro di IRPEF, e così poco più di un quarto dei contribuenti si fa carico da solo di quasi l’80% dell’imposta. È come in una squadra di calcio: se solo tre giocatori corrono e gli altri otto guardano, non si vince nessuna partita. Questo squilibrio logora il ceto medio, scoraggia i giovani e mette a rischio il futuro del Paese. Per questo, alla vigilia della legge di bilancio, chiediamo alla politica scelte coraggiose: meno evasione, più equità, investimenti veri su lavoro e salari», dichiara Stefano Cuzzilla, Presidente CIDA.

Dalla rielaborazione dei dati MEF e Agenzia delle Entrate emerge infatti che, nel 2024, su una popolazione di 58.997.201 cittadini residenti sono stati 42.570.078 quanti hanno presentato una dichiarazione dei redditi (con riferimento all’anno di imposta precedente). A versare almeno 1 euro di IRPEF, però, solo 33.540.428 residenti, vale a dire poco più della metà degli italiani; a ogni contribuente corrispondono quindi 1,386 abitanti.Dati che non sembrano riflettere la narrazione di una popolazione oppressa dalle tasse, ancora di più se incrociati con quelli relativi all’effettiva ripartizione del carico fiscale: su 42,6 milioni di dichiaranti, poi, il 76,87% dell’intera IRPEF è pagato da circa 11,6 milioni di contribuenti, mentre i restanti 31 ne pagano solo il 23,13%.

«Il totale dei redditi prodotti nel 2023 e dichiarati nel 2024 ai fini IRPEF è ammontato a 1.028 miliardi, per un gettito IRPEF generato – al netto di TIR e detrazioni – di 207,15 miliardi (di cui 185,58 miliardi, l’89,9%, di IRPEF ordinaria): valore in aumento del 9,43% rispetto all’anno precedente. Crescono sia i dichiaranti (42.570.078, numero addirittura superiore a quello record del 2008) sia i contribuenti/versanti, vale a dire coloro che versano almeno 1 euro di IRPEF, che toccano quota 33.540.428. Mentre salgono sia i contribuenti con redditi compresi tra i 20 e i 29mila euro (9,7 milioni) sia quelli con redditi medio-alti dai 29mila euro in su, diminuiscono i dichiaranti per tutte le fasce di reddito fino a 20mila euro, che calano da 22,356 a 21,241 milioni», ha documentato il Prof. Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel corso della sua relazione, dalla quale è emerso un primo importante paradosso malgrado un trend complessivamente positivo. L’Osservatorio evidenzia sì una riduzione dei dichiaranti con redditi bassi in favore di quelli medio-alti ma, anche per effetto di bonus e detrazioni, non ci sono variazioni sostanziali nella ripartizione del carico fiscale,che pesa soprattutto sulle spalle di uno sparuto ceto medio. «Basti pensare che, malgrado il miglioramento di PIL e occupazione – precisa Brambilla – il 43,15% degli italiani non ha redditi e, di conseguenza, vive a carico di qualcuno. Sono invece 1.184.272 i soggetti (in aumento di oltre 170mila unità sullo scorso anno) che denunciano un reddito nullo o negativo, non pagando quindi né tasse né contributi».

Redditi dichiarati, tipologie di contribuenti e consumi: un Paese di “poveri” benestanti?

Altrettanto rilevanti e meritevoli di una riflessione su equità ed efficienza del nostro sistema fiscale, anche i profili di distribuzione dei contribuenti che, sulla base di quanto dichiarato nel 2024, hanno corrisposto almeno 1 euro di IRPEF nel 2023.

Nel dettaglio, da 0 a 7.500 euro lordi si collocano 7.288.399 soggetti, il 17,12% del totale, che pagano in media 26 euro di IRPEF l’anno (19 se rapportati ai cittadini) e sono pertanto pressoché a carico dell’intera collettività. Nella fascia subito superiore, quella dei contribuenti che dichiarano redditi tra i 7.500 e i 15.000 euro lordi l’anno sono 7.696.479: in questo caso, al netto del TIR, l’IRPEF media annua pagata per contribuente è di 296 euro (214 euro per abitante), a fronte – a titolo esemplificativo – di una spesa sanitaria pro capite pari di circa 2.222 euro. L’insieme di queste 3 fasce di contribuenti, vale a dire 16.169.510 soggetti versa solo 1,19% del totale IRPEF: rapportato al numero di abitanti, questo significa 22,409 milioni di persone (l’equivalente di Lombardia, Lazio, Campania e oltre) pagano, al netto di deduzioni e detrazioni un’imposta media di 100 euro annui.

Tra 15.000 e 20.000 euro di reddito lordo dichiarato si trovano circa 5 milioni di contribuenti, che pagano un’imposta media annua di 1.817 euro, che si riduce a 1.311 euro per singolo abitante; seguono da 20.001 a 29.000 euro 9,7 milioni di contribuenti, con un’imposta media di 3.750 euro che scende a 2.706 se rapportata al totale abitanti: un importo che, come per la fascia successiva, basterebbe di per sé a coprire i costi della spesa sanitaria pro capite, ma che resterebbe comunque insufficiente guardando alle altre principali funzioni di welfare non coperte da contributi di scopo, tra cui appunto l’assistenza. Seguono quindi i redditi tra 29.001 e 35mila euro, fascia in cui si collocano 4.359.429 contribuenti pari a 6.041.664 abitanti: questi contribuenti, il 10,24%, pagano un’imposta media di 6.254 euro l’anno, 4.512 euro per abitante, e versano complessivamente il 13,16% delle imposte.  Sommando tutte le fasce di reddito fino a 29mila euro, si evidenzia dunque che il 72,59% dei contribuenti italiani versa soltanto il 23,13%: di tutta l’IRPEF: «una fotografia più vicina a quella di un Paese povero che di uno Stato membro del G7 e che parrebbe oltretutto poco veritiera guardando a consumi e abitudini di spesa degli italiani, che solo nel 2023 hanno destinato al gioco d’azzardo, slot machine e gioco online compreso, circa 150 miliardi di euro o che, ancora, figurano ai primi posti in Europa per possesso di abitazioni, moto e autoveicoli, smartphone e abbonamenti a pay-tv», il commento del Professore.

Ma quindi chi paga davvero le tasse in Italia? A salire, la scomposizione per scaglione mostra quei poco più di 7 milioni di versanti con redditi superiori ai 35mila euro che, nella sostanza, si fanno carico del finanziamento del nostro welfare state. Più precisamente, esaminando le dichiarazioni relative agli scaglioni di reddito più elevato, sopra i 100mila euro, l’Osservatorio individua solo l’1,65% dei contribuenti (poco più di 700mila persone, meno degli abitanti della città di Torino, per fare un esempio) che, tuttavia, versano il 22,43% del totale IRPEF. Sommando i 1.776.374 ( il 4,17% del totale,  paganti il 17,88% del totale delle imposte) titolari di redditi lordi da 55.000 a 100mila euro, si ottiene che il 5,82% paga il 40,31% dell’IRPEF. Includendo anche i redditi dai 35.000 ai 55mila euro lordi, risulta pertanto che il 17,17% paga il 63,71% dell’imposta sui redditi delle persone fisiche. Ricomprendendo infine lo scaglione 29mila-35mila euro, “autosufficiente” su quasi tutte le funzioni di welfare salvo una quota di assistenza, si ottiene che il 27,41% dei contribuenti corrisponde il 76,87% dell’IRPEF complessiva e, si suppone, una quota altrettanto rilevante delle altre imposte.

Volendo esemplificare la poco efficace progressività nella ripartizione del carico fiscale, basti fare un esempio: considerando l’effetto TIR: al 2023 le imposte pagate da un lavoratore dipendente con un reddito tra 35 e 55mila euro sono 34 volte quelle di un reddito tra 7.500 e 15mila euro, mentre tra 100.000 – che valgono al netto delle tasse circa 52mila euro –  e 200.000 euro sono pari a 149 volte; con oltre 300mila euro di reddito, l’imposta equivale a 814 lavoratori tra 7.500 e 15mila euro (133 con redditi tra 15 e 20mila).

«Basta guardare questi numeri per capire dove sta la verità: meno di un terzo dei contribuenti sostiene da solo oltre tre quarti dell’IRPEF. È una sproporzione che non possiamo ignorare. Non è un sistema progressivo, ma un meccanismo che concentra il peso fiscale su una minoranza e lascia il resto del Paese sulle spalle di pochi. Chi guadagna dai 60mila euro in su, di fatto, finisce sempre per pagare per due: per sé e per chi resta totalmente a carico della collettività. È la trappola del ceto medio: molti ricevono senza dare, pochi danno senza ricevere. Ed è su questi pochi che regge l’intero welfare italiano» puntualizza Stefano Cuzzilla.

La redistribuzione della ricchezza e il difficile finanziamento del welfare italiano

Come garantire innanzitutto la sostenibilità del nostro sistema di protezione sociale ma, più in generale, produttività e sviluppo del Paese se il grosso del carico fiscale grava su una ristretta minoranza? Questo il secondo grande paradosso su cui invita a riflettere l’Osservatorio, che realizza con cadenza annuale un’analisi delle dichiarazioni individuali dei redditi IRPEF e delle altre principali imposte dirette e indirette (tra cui IRAP, IRES, ISOST e gettito IVA), con l’obiettivo di ottenere indicatori utili a comprendere l’effettiva situazione socio-economica del Paese e a verificare la tenuta del suo sistema di protezione sociale.

Solo per pagare la spesa sanitaria, per i primi 3 scaglioni con redditi da negativi/zero fino a 20mila euro, la differenza tra l’IRPEF versata e il costo della sanità (2.222 il valore pro capite) supera  i 56 miliardi. Considerando anche l’istruzione e la spesa assistenziale e welfare degli enti locali, la redistribuzione totale supera i 233 miliardi (1,13 volte l’importo dell’intera IRPEF) su circa 675 di entrate, al netto dei contributi sociali. In pratica, viene redistribuito l’80,56% di tutte le imposte dirette, principalmente a beneficio soprattutto del 72,59% dei contribuenti con redditi fino a 29mila euro. Un costante trasferimento di ricchezza, sotto forma di servizi gratuiti di cui quest’enorme platea di beneficiari spesso non si rende neppure conto, in parte anche a causa delle ripetute promesse di nuove elargizioni da parte della politica che tende viceversa a trascurare i percettori di redditi medio-alti, spesso esclusi da bonus e altri benefici malgrado il forte contributo fornito al sistema. «Da troppo tempo lo Stato italiano pare poggiarsi sul pericoloso binomio “meno dichiari e più avrai dallo Stato” che, in assenza di controlli e combinato a un eccesso di assistenzialismo, incoraggia elusione e lavoro nero.Giusto aiutare chi ha bisogno, così come garantire a tutti diritti primari, come ad esempio quello alla salute – la puntualizzazione di Brambilla – ma, al tempo stesso, non si può trascurare quanto queste cifre siano verosimilmente “gonfiate” da

economia sommersa ed evasione fiscale per le quali primeggiamo in Europa: è davvero credibile che quasi la metà degli italiani viva con circa 10mila euro lordi l’anno».

E con queste prospettive come mantenere, infine, il nostro generoso welfare state? Solo nel 2023 sono statati necessari 131,119 miliardi per la spesa sanitaria, oltre 164 per l’assistenza sociale e altri circa 13,4 miliardi per il welfare degli enti locali: un conto totale da oltre 300 miliardi che, in assenza di tasse di scopo (come, ad esempio, accade per le pensioni che sono in attivo al netto dell’IRPEF), viene finanziato attingendo fiscalità generale: a queste sole 3 voci di spesa sono state dunque destinate nell’ultimo anno di rilevazione pressoché tutte le imposte dirette IRPEF, addizionali, IRES, IRAP e ISOST e anche 32,8 miliardi di imposte indirette, in primis l’IVA. Negli ultimi 16 anni i redditi dichiarati sono aumentati del 28,46%, mentre la spesa per il welfare è cresciuta del 45%, trainata soprattutto da quella assistenziale, il cui valore tende ormai ad avvicinarsi pericolosamente al gettito dell’IRPEF ordinaria. Basta questo semplice confronto per capire come si sia davanti a un onere, già oggi e ancora di più in futuro, molto gravoso da sostenere e che lascia ad altre funzioni statali, indispensabili allo sviluppo del Paese (come infrastrutture, investimenti in capitale e così via), solo le residuali imposte indirette, le accise e la strada del debito. «Debito che – puntualizza Brambilla – ogni anno aumenta spaventosamente nell’indifferenza generale e, infatti, siamo il fanalino di coda in Europa per occupazione e produttività. D’altra parte, siamo tra i pochi Paesi che non hanno un’anagrafe e una banca dati dell’assistenza: lo Stato fa sconti, bonus, decontribuzioni ma non sa quanto pagano comuni, province, regioni, comunità montane e così via, con il risultato che in questi ultimi 16 anni sono esplose agevolazioni e misure assistenziali che, se da una parte si sono stratificati, complicando e rendendo meno equo il sistema fiscale, dall’altro hanno finito con l’incentivare implicitamente lavoro irregolare e fenomeni di sotto-dichiarazione».

“Oggi il vero banco di prova è la legge di bilancio – dichiara Cuzzilla – quella stessa manovra che, come ha detto la premier Meloni, intende concentrarsi sul ceto medio. Non ci aspettiamo miracoli, sappiamo che le risorse sono poche. Ma è proprio nei momenti di scarsità che si misura il coraggio della politica. Serve un cambio di paradigma: smettere di disperdere energie in bonus effimeri e iniziare a costruire scelte di lungo respiro. Se il ceto medio è davvero al centro, allora bisogna crederci fino in fondo. Perché non stiamo parlando di una parte qualsiasi della società, ma della spina dorsale del Paese. Donne e uomini che hanno sempre fatto la loro parte, che non si sono mai tirati indietro, e che oggi sono pronti a dare forza a una nuova stagione. A condizione che la politica decida finalmente di investire su di loro. Il futuro dell’Italia- conclude Cuzzilla -si gioca qui: nella fiducia restituita al ceto medio, nelle opportunità offerte ai giovani, in un fisco che non sia più una ferita, ma un patto di equità e di fiducia. Solo così il fisco potrà diventare ciò che deve essere: l’alleato della crescita e della coesione sociale”.

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